Considerazioni di un professore universitario e medico del cuore

Il presente testo è apparso della raccolta SI VIS PACEM PARA PACEM, Pace una scelta di vita, a cura di Gioia di Cristofaro Longo e edito da Armano Editore

“Non è sufficiente parlare di pace. Bisogna crederci. E non basta crederci. Bisogna lavorarci sopra.”– Eleanor Roosevelt

Da Professore Ordinario di cardiologia presso La Sapienza di Roma dal 1994, nonché decano dei docenti di cardiologia italiani, desidero partire da una frase della first lady Eleanor Roosevelt sulla pace, a mio avviso molto pregnante.

E’ infatti necessario agire attivamente per la pace, uscendo fuori dalla retorica comune e pressapochista molto diffusa al giorno d’oggi che non porta a risoluzioni bensì solo ad ulteriore confusione nella popolazione e, peggio ancora, a complicazioni e a rischio di escalation.

La costruzione della pace, in un momento storico come quello che stiamo vivendo, si realizza a partire da un’analisi esaustiva della complessità della situazione presente, passata e futura.

Rudolf Virchow, professore di anatomia patologica all’Università di Berlino, disse che “La medicina è una scienza sociale e la politica non è altro che medicina su larga scala”, non a caso i rapporti che intercorrono tra la medicina e la nostra società (come testimoniato anche dalla recente pandemia da COVID-19) sono molto intimi.

Partendo da questa premessa si possono riscontrare numerose analogie tra i fenomeni che intervengono nella nostra società e quelli che si verificano nel corpo umano. La pace, infatti, alla stregua dell’omeostasi fisiologica che viene ad essere perturbata nell’organismo umano, se intaccata deve essere sapientemente ripristinata, partendo da una analisi complessiva del contesto socio-politico-culturale di riferimento.

Seguendo questa analogia possiamo considerare la guerra come il processo eziologico e fisiopatologico che conduce alla malattia e che dobbiamo fronteggiare adottando un preciso percorso di diagnosi, valutazione funzionale e terapia, considerando i rapporti rischi-benefici.

Essendo cardiologo non posso non fare riferimento al cuore, l’organo che garantisce l’apporto di sangue a tutto il nostro corpo, una affascinante pompa elettro-meccanica, che non si ferma mai per tutta la durata della vita di un individuo.

Considerando la patologia cardiovascolare, la sindrome clinica che costituisce la tappa finale di tutte le malattie che colpiscono il cuore è l’insufficienza cardiaca, condizione in cui viene a verificarsi la cosiddetta insufficienza di circolo, cioè il cuore non è più in grado di garantire un apporto di sangue adeguato alle esigenze dell’organismo.

In questa condizione patologica, sicuramente tutto inizia con la compromissione cardiaca ma il processo patologico si estende agli altri organi e apparati (polmoni, reni, fegato, cervello…) fino ad arrivare ad interessare e compromettere tutto l’organismo e tutte le funzioni vitali.

Continuando l’analogia tra medicina e geopolitica, potremmo paragonare l’insufficienza cardiaca alla condizione di guerra che viene ad instaurarsi tra due o più nazioni e che può avere progressioni ed estensioni non controllate.

Come reagisce il nostro organismo all’insufficienza cardiaca? Attuando il potenziamento di una serie di meccanismi compensatori fisiologici già presenti nel nostro corpo, come il sistema nervoso autonomo simpatico ed il sistema renina-angiotensina-aldosterone. Questi meccanismi di compenso, che in una condizione di guerra potremmo paragonare all’intervento delle forze alleate in sostegno della nazione attaccata, a lungo andare determinano un eccessivo stress delle pareti cardiache che andranno incontro ad un rimodellamento morfo-funzionale sfavorevole; è, ad esempio, il caso di molti scenari di guerra, in cui l’intervento di terze parti può condurre ad un peggioramento dello scenario bellico e ad una escalation paragonabile a quella che si verifica, in cardiologia, nel paziente con insufficienza cardiaca avanzata.

A questo proposito mi piace ricordare quello che diceva il Professor Mihai Gheorghiade, noto cardiologo, recentemente scomparso, il quale paragonava l’uso indiscriminato dei diuretici ai bombardamenti americani in Iraq.

Il caro Mihai soleva ricordare la frase del presidente Bush “mission accomplished” in riferimento al solo apparente risultato positivo ottenuto in quel territorio di guerra. Che la missione non fosse compiuta, così come in cardiologia non è sufficiente bombardare il paziente con diuretici, è sotto gli occhi di tutti.

Come dovrebbe reagire il cardiologo clinico all’insufficienza cardiaca per contrastarla efficacemente? Innanzitutto partendo da una visione d’insieme del paziente, analizzandone la complessità e quindi l’interazione tra il sistema cardiovascolare e gli altri sistemi, come ad esempio quello renale (il rene di solito nell’insufficienza di circolo è il primo organo a soffrire). Successivamente verrà impostata una terapia mirata, con farmaci che antagonizzano i meccanismi di compenso, divenuti patologici, oppure in alcune situazioni con farmaci cosiddetti inotropi, che mirano a potenziare la funzione contrattile del cuore. 

L’insufficienza cardiaca è una delle condizioni più complesse della medicina, in cui bisogna tenere conto dell’organismo nella sua totalità (bisogna valutare il rene, i polmoni, gli elettroliti e cosi’ via) e poi mantenere un corretto bilancio terapeutico calibrando i farmaci a disposizione (ad esempio dando troppi inotropi si corre il rischio di non potenziare la funzione contrattile bensì di peggiorarla o di far insorgere aritmie mortali).

Sempre in tema di terapia, spesso i nostri pazienti, che sono congesti, reagiscono molto bene alla somministrazione di diuretici e osserviamo spesso un miglioramento della loro condizione clinica: tuttavia la malattia progredisce e l’uso continuativo e indiscriminato di diuretici può portare a drammatiche conseguenze negative: a questo si riferiva il succitato collega Gheorghiade.

Nell’insufficienza cardiaca pertanto, bisogna scegliere la migliore opzione per il paziente e considerare i rapporti rischi-benefici di ogni trattamento terapeutico o interventistico estremamente complesso. 

Una situazione analoga si riscontra nell’approccio al trattamento delle malattie tumorali, in cui è presente il tumore che accrescendosi senza controllo distrugge i tessuti sani del nostro organismo: in questo settore abbiamo tante armi a nostra disposizione anche “molto intelligenti” ma anche in questa condizione dobbiamo considerare accanto agli effetti favorevoli anche gli effetti collaterali e avversi che, se non controllati e/o considerati, possono essere anche fatali per il paziente.

Sarà quindi compito del bravo oncologo saper bilanciare il rischio-beneficio nel trattamento ed impostare una terapia adeguata.

L’approccio del clinico è molto simile a quello che si può tenere, pertanto, di fronte ad una situazione di guerra. 

A questo proposito vorrei ricordare quanto scritto da Lawrence Freedman, professore emerito di studi di guerra al King’s College di Londra, che parlando di strategia la definiva come “l’abilità di guardare oltre il breve termine e l’inessenziale per vedere il lungo termine e l’essenziale, per confrontarsi con le cause piuttosto che con i sintomi, per vedere le foreste piuttosto che gli alberi”.

E’ fondamentale, di fronte al male della guerra, avere una visione d’insieme degli eventi, analizzarne la complessità e poi adottare delle contromisure coscienziose, scegliendo eventualmente ciò che è il male minore nel caso in cui non si possa ottenere il massimo dell’effetto sperato.

Nell’ottica di distinguere le dinamiche di guerra dalle dinamiche di pace, proprio come nell’approccio diagnostico medico, è necessario andare alla fonte dei problemi ed analizzarli dettagliatamente. 

E’ obbligatorio pertanto ricorrere ad informazioni corrette, depurate da credi aprioristici, per arrivare ad una corretta interpretazione della realtà.

In quest’ottica, prendendo ad esempio il recente conflitto tra Russia ed Ucraina, si è verificata in molti casi una semplificazione delle cause che hanno condotto al conflitto, riconducibili secondo molti organi di stampa semplicemente alla follia del presidente russo Putin.

Indubbiamente quest’ultimo si è reso e si sta rendendo responsabile di atrocità da condannare e che dovevano essere evitate. A questo punto desidero, per chiarire meglio il mio punto di vista, con estremo rispetto, citare Papa Francesco:“L’abbaiare della Nato alla porta della Russia ha indotto il capo del Cremlino a reagire male e a scatenare il conflitto. Un’ira che non so se sia stata provocata, ma facilitata forse si”.

Proprio mentre scrivo questo capitolo, il Papa ha rilasciato una lunga intervista in cui ha chiarito meglio il proprio pensiero, ribadendo che sarebbe sbagliato considerare la sua posizione come “Putiniana” e che sarebbe semplicistico, nell’ambito di questa guerra, ridurre tutto ad una distinzione tra buoni e cattivi, senza ragionare sulle radici del conflitto e sulla sua complessità.

La guerra secondo il Papa è stata o provocata o al più non impedita, probabilmente anche a causa di interessi globali di vendita di armi e di appropriazione geopolitica della nazione, quest’ultimo aspetto da sempre presente nella storia dell’Ucraina.

Altro aspetto da non sottovalutare secondo il Papa, che voglio anche io sottolineare, è che non dobbiamo abituarci alla tragica realtà della guerra che stiamo vivendo: proprio come una malattia cardiovascolare, dobbiamo impedire il processo di cronicizzazione di questa guerra che ormai va avanti da mesi; non basta essere solidali e compassionevoli in questa prima fase, bisogna agire concretamente, proprio come se fronteggiassimo una patologia cardiaca.

Così come di fronte ad uno stato di malattia, sia di origine cardiaca sia di origine tumorale, bisogna cercare da una parte che non progredisca con una strategia medica corretta, e dall’altra, evitare anche l’accanimento terapeutico.

Riallacciandomi sempre alle parole del Sommo Pontefice, desidero ancora una volta sottolineare che è necessario andare oltre visioni semplicistiche e pressapochiste, analizzando i fenomeni nella loro interezza per ricercarne le cause.

Per raggiungere questo obiettivo dobbiamo riappropriarci della cultura della complessità, ormai scomparsa nella nostra società: purtroppo dal dopoguerra in poi abbiamo abdicato alla nostra cultura mediterranea che ha le sue radici lontane nei classici latini e greci, lontani sì, ma sempre rigorosamente attenti a tutta l’umanità nelle sue sfaccettature e ad una visione d’insieme della realtà, sempre contestualizzata e mai distorta attraverso la lente di un approccio particolaristico e semplicistico.

Viviamo in un mondo in cui troppo spesso ci vengono proposte delle semplificazioni di qualsiasi processo sotto la spinta di motivazioni prevalentemente economiche e tecnologiche.

Nella parte finale di questo capitolo vorrei proprio ribadire, da docente universitario, la necessità, se vogliamo costruire la pace, di riappropriarci delle nostre radici culturali “umanistiche” con una visione d’insieme che tenga in considerazione tutte le variabili socio-economico-politiche con riferimento ai nostri valori universali di libertà, laicità, dignità.

Per trovare un giusto equilibrio tra complessità e semplificazione, tra visione d’insieme e visione frammentaria, tra guerra e pace, auspico un ritorno alle culture mediterranea e mitteleuropea.

Il Mediterraneo da sempre è stato punto di congiunzione tra varie civiltà, ad esempio tra quelle europee e mediorientali, ed è nell’area del Mediterraneo che sono nate le più grandi civiltà e sono nati i più grandi pensatori dell’antichità. 

Allo stesso modo la cultura mitteleuropea ha contribuito notevolmente allo sviluppo culturale europeo ed allo sviluppo del senso di comunità che ha condotto alla costruzione della comunità europea.

L’Europa si deve riappropriare delle proprie radici culturali e farsi promotrice di politiche sovranazionali. Mi piace concludere questo capitolo ricordando quanto auspicato, fin dal 1999, da Franco Archibugi, noto economista e studioso di pianificazione applicata a problemi politici, che indicava la strada, spero ancora percorribile e non utopistica, di una organizzazione mondiale delle nazioni e dei popoli con il rafforzamento delle istituzioni di governo e di giustizia su scala mondiale. Solo cercando di realizzare una cosmopoli organizzata con limitazioni delle sovranità nazionali ci si potrà integrare in un sistema mondiale di garanzie e di diritti, sottolineava Archibugi. Con questo auspicio e con l’impegno di tutti in questa direzione potremo costruire la pace attraverso dinamiche virtose (para pacem) e non mantenerla attraverso la corsa agli armamenti (para bellum).

Francesco Fedele